QTI No. 05

Tascabili di fotografia della Svizzera italiana

Didier Ruef, di Adriano Heitmann

Vita dura per un appassionato.

Didier Ruef, professione reporter, professione in via d’istinzione. Sta sparendo il
fotografo che considera immagine ciò che vede in macchina. Ci vuole presenza di
spirito, rapidità, occhio, intuizione. E’ adesso o mai più. Ignorare photoshop, non per
capriccio ma per disciplina. Didier è d’un pezzo solo: lui e la sua macchina fotografi -
ca. Nella vita del reporter ci sono delle stazioni, che si snocciolano lungo un percorso,
come quello di una via crucis. Africa, Contadini di montagna, pattume platetario.
Tre temi, tre libri, due dei quali pubblicati in Ticino. Didier Ruef è ginevrino e ticinese
d’adozione. Vive qui da noi dal 1994. Lui è un uomo appassionato, ossessionato.
Rimprovera ai nostri tempi la noia delle scelte editoriali. Editori che non si espongono,
politicamente parlando. Editori che vogliono solo libri dal successo garantito. E
poi, soldi, soldi, soldi. Non c’è spazio per la fotografi a scomoda, socialmente
parlando. Chi vuole ancora sentir parlare di Chernobyl? Dopo tutto si cerca oggi di
tappare le fughe di radioattività a Fukushima. Nella editoria contemporanea è tempo
di reciclaggio. Si va a scavare negli archivi: Bruce Davidson, Kudelka, Robert Frank,
Eugene Smith e via dicendo. C’è poco spazio per il reportage contemporaneo,
quello vero, quello della scuola Magnum per intenderci.
Il digitale – dice Didier Ruef – ha reso il mondo soft, nella luce, nei contenuti.
La fotografi a ha perso la sua innocenza. L’uomo nella strada è pressoché sparito
grazie ai diritti alla privacy che ne impediscono la pubblicazione. Sovente quando
c’è troviamo una silouette inespressiva atta a dare unicamente la dimensione degli
oggetti. La post produzione ha sostituito il hic et nunc del fotoreporter. Sento la
vicinanza tra Didier Ruef e i suoi soggetti, sento il suo sguardo a volte feroce, a tratti
violento. Sento il suo invito alla rifl essione, sento la sua compassione per un mondo
ferito. Sento le sue ferite. La sua fotografi a è forse un atto catartico?
Il suo lavoro ha corpo nei suoi splendidi libri, unica maniera per lasciar traccia. Mi
raccontava una volta sorridendo: sono un africano, penso come un africano. La mia
infanzia mi ha portato a considerare la mia famiglia una grande tribù e oggi ancora
vivo quasi senza domicilio, cittadino del mondo, girovago, reporter contento di
essere svizzero ma non troppo svizzero. Cartier Bresson diceva che i fotografi sono
come dei velieri: solcano i mari in solitudine e ogni tanto approdano in un porto e
ripartono... Un’immagina poetica che mi piace ricordare.
Didier Ruef mi ha proposto di pubblicare il tema bestiarium che ci permette di
assaporare il carattere ironico dell’autore, una specie di sorriso sul mondo; ma
anche, non potrebbe essere altrimenti, un messaggio melanconico dove l’animale
è assoggettato al uomo, rilegato a peluche nel migliore dei casi.